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Giovanna Grimaldi, Il mare che c'è, Ghenomena, 2016, pp. 127

Sandra Di Vito

“Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all'estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c'incontriamo, possiamo essere, l'uno con l'altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. [...] Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati, sono come i geroglifici egiziani o degli assiro-babilonesi, la testimonianza d'un nucleo vitale che ha cessato di esistere, ma che sopravvive nei suoi testi, salvati dalla furia delle acque, dalla corrosione del tempo. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra.” [Natalia Ginzburg, Lessico famigliare]
«Impara dal mare»
 Aria di famiglia era inizialmente il titolo della Suite in tre tempi di Giovanna Grimaldi, poi cambiato in Il mare che c'è. Recentemente edito, dopo un lungo processo di “alleggerimento” della sintassi e del lessico, per rendere ”semplice” ciò che è “complesso”, così ha dichiarato l'autrice, il libro può essere letto come romanzo epistolare, sapienziale o di formazione. La storia che in queste pagine si narra è la storia di una nonna che ha una “visione” e una nipote che avrà la “capacità di realizzarla”. La trama è semplice, i fili della storia sono complessi. Come è complesso mettere d'accordo ragione e amore, come è complesso rinsaldare l'unità familiare minata dalla lontananza e dall'assenza del “doppio sguardo” che include la memoria e la narrazione.
«C'è un momento della vita in cui la casa dell'infanzia non è fatta di pareti o pavimenti o finestre, tutta roba tanto fragile. Improvvisamente si fa d'aria, di respiro»: queste le parole della protagonista, Laura Comperti, nella lettera proemiale all'amica di sempre, Sara, quando ha ormai sessant'anni, è ritornata nella casa d'infanzia per l'ultima volta, dopo essersene liberata con una vendita, quando lei stessa è «diventata un condominio», un condominio di carne, «abitata da voci».
 Si sente un rimbalzo di anime, le voci di cinque generazioni, nelle lettere che Laura, tre anni prima di morire, quando scopre di essere malata, scrive alla nipotina Angelica, che dopo la morte del padre vive lontano da Napoli e dai parenti del padre. Il taglio delle radici era avvenuto per la piccola proprio alla morte del padre, Angelica aveva quattro o cinque anni, quando si era interrotto il rapporto con i nonni paterni e con l'infanzia. Le lettere hanno una cadenza mensile, e cominciano a essere scritte per la nipote «quando lei aveva nove anni, cinque anni dopo che la mamma l'aveva portata via da Napoli», ma verranno lette da Angelica a morte della nonna avvenuta, in un solo giorno, quando l'amica della nonna Sara, di professione avvocato, gliene consegnerà una copia, ubbidendo alla richiesta di Laura prima che morisse. A fare da controcanto alle lettere di Laura c'è la voce di Sara. Con il suo monologo, Sara contribuisce a dare un ritmo narrativo alla vicenda. La sua voce compare, infatti, nelle parti strategiche del libro, quasi un intermezzo narrativo: nella parte proemiale, dopo la prima lettera di Laura a lei indirizzata, quando, a otto anni di distanza dalla morte, all'amica verrà dedicata una strada, e dopo le lettere di Laura alla nipote Angelica, nella parte finale di ciascuno dei tre tempi in cui è diviso il libro. Le tre sezioni del libro sono rispettivamente intitolate: Primo tempo Benvenuta, piccolina, benvenuta; Secondo tempo Delle loro voci ti voglio raccontare; Terzo tempo Le parole ritrovate; le tre sezioni sono aperte, come prologo, dalla Lettera di Laura a Sara del 12 novembre 2006 e chiuse, come epilogo, dalla lettera di Laura alla nipote scritta nello stesso giorno, creando, nella struttura ad anello, il simbolo archetipico del ritorno.
 La struttura musicale del libro cui rimanda il sottotitolo: Suite in tre tempi, evoca la musica che accompagnerà il funerale di Laura, come da lei disposto prima di morire: Suite per pianoforte di Schömberg, una suite che Laura, pianista famosa per le interpretazioni di Beethoven e di Mozart, aveva inserito nel programma di uno dei suoi ultimi concerti, «per ubbidire al supremo comandante». La musica dodecafonica di Schömberg è un metodo di composizione che consiste nell'uso «costante ed esclusivo di una serie di dodici note differenti. Ciò significa, naturalmente, che nessuna nota viene ripetuta nella serie, e che questa usa tutte le dodici note della scala cromatica disponendole però in un ordine diverso». Questo metodo di composizione «non ha altro scopo che la comprensibilità», un valore artistico che per Schömberg serviva a soddisfare insieme l'intelletto e l'emozione, perché a «distinguere le dissonanze dalle consonanze non è una maggiore o minore bellezza, ma una maggiore o minore comprensibilità» .
La scelta di uno stile musicale che valorizza le dissonanze può sembrare una scelta stravagante per una pianista di musica classica, rivelerà invece la sua vera ragione d'essere, una quasi interna evidenza ontologica, quando tutti i fili delle storie narrate da Laura (fiabe, miti, leggende familiari, etc.) convergeranno verso il loro centro semantico. E il centro, inteso anche come motore narrativo, è l'amore:
«Ti raggiungeranno, spero, come una musica le voci familiari che ha sentito, che sentirà tua cugina Martina, perché i ricordi in comune creano un legame che nulla può cancellare. […] Perciò ho cominciato a scrivere queste lettere tre anni fa, il giorno in cui ho saputo che ero malata, che forse non avrei fatto in tempo a ritrovarti, il giorno in cui ho cominciato a percorrere la stessa strada che era toccata a tuo padre. La mia però è stata molto più facile, perché avevo orme da seguire e un amore da raggiungere».
Così scrive Laura alla nipote nella sua ultima lettera, datata 12 novembre 2006 e dedicata alla parola: “perdono”. Il perdono è una delle tante forme dell'amore, di tutte di gran lunga la più sublime. L'amore infatti include, come la musica di Schömberg, anche le dissonanze, crea innesti, non esclusione. Sa perdonare. L'amore rende invisibile il visibile e visibile l'invisibile, come scriveva Ariosto . Non a caso il nome della nipotina di Laura, cui si rivolge nelle lettere con l'apostrofe “Amore mio”, un vero e proprio secondo nome, rimanda esplicitamente al personaggio ariostesco, incarnazione del desiderio e dell'amore: Angelica, principessa del Catai. La seconda sezione o Secondo tempo dedicata alla ricostruzione dell'albero genealogico, con la narrazione di storie e leggende familiari, si conclude, pertanto, con la storia del nome Angelica, la fuggitiva per antonomasia, che tutti i cavalieri cercano invano di raggiungere, ma che si ferma solo quando s'innamora di un semplice fante ferito. Ad accomunare i due personaggi, quello letterario e quello della destinataria, oltre al nome c'è, appunto, la fuga, volontaria nella prima, involontaria nella seconda, perché voluta dalla madre. Sarà il fante ferito da curare, nella prima; le parole ritrovate della nonna, nella seconda, a porre fine alla fuga di entrambe e a superare l'iniziale diffidenza della seconda, quando avrà per la prima volta tra le mani le lettere che la nonna le aveva spedito quando era ancora bambina e che la madre non le aveva mai letto: «Furono davvero spedite, come ha detto quella ironica amica di sua nonna stamattina?».
 Nel libro di Giovanna Grimaldi è ancora la voce di Sara, distinta anche tipograficamente dal corsivo, a dare spessore psicologico al personaggio di Angelica. Il suo sguardo non è però focalizzato su Angelica bambina di nove anni cui si rivolge la nonna a partire dalla prima lettera, ma su una giovane donna di ormai vent'anni, che subirà un processo di maturazione dopo la lettura delle lettere della nonna, poco prima del suo funerale. Saranno le parole della nonna a costruire un ponte generazionale, che permetterà ad Angelica il recupero di quelle radici dell'amore che erano state inspiegabilmente recise dalla madre di lei: «Sì, sta imparando la lingua per parlare con suo padre bambino, ma anche con il resto della famiglia, con quel che resta della famiglia». L'incontro delle cugine al funerale della nonna sarà il segno evidente e tangibile dell'avvenuta metamorfosi di Angelica: il tempo si dilaterà, quando le cugine avranno ricordi comuni e, sebbene in modi e tempi differenti, avranno entrambe udito le voci familiari:
Il tempo di girarmi, ah la giovinezza, e Angelica è in prima fila accanto ad Alberto. Benvenuta, la mano di Alberto le accarezza la spalla. Scoprono l'insegna. A dire la verità il panno che la nasconde vola via da solo e il vigile lo rincorre per discesa. Angelica e Martina invece di applaudire lo seguono con gli occhi e poi si guardano e ridono, niente affatto commosse dalla cerimonia. Irriverenti le ragazze, chissà da chi hanno preso.
Perché qualcosa mi dice, amica mia perduta, che a sparigliare le carte con questo vento bizzarro sei ancora una volta tu?
 Nelle lettere l'attenzione della nonna non è centrata sull'indagine delle ragioni dell'esclusione che taglia ponti e radici. Tutte le fiabe, i miti, tutti i fili delle storie a cui la nonna dà voce gettano ponti, costruiscono un tappeto su cui Angelica potrà volare, dopo il viaggio alla sorgente dei legami familiari, dopo il recupero di una parte sconosciuta di sé, sepolta sotto quel mare, che c'è anche quando non si vede, come i Lari nelle case. Quel mare con cui il padre di Angelica «ha pattiat'», come diceva la tata Crocifissa, che le cose importanti le diceva sempre in dialetto, dopo che Sandro, il padre di Angelica, aveva superato la paura del mare.
  Le lettere dell'ultima sezione sono tutte dedicate a una parola chiave: “domanda”; “bellezza”; “scuola”; “casa”; “rumore”; “viaggio”; “volo”; “sirena”; “incontro”; e prima dell'ultima parola “perdono”, la penultima è dedicata, come in una scala cromatica ascendente, alla parola “mare”. Quel mare in cui ci si può tuffare in cerca dei sogni, da cui tutti forse proveniamo e da cui è importante imparare, perché il mare è la vita stessa:
«Oh il mare. Tesoro, impara dal mare. Il mare canta, il mare suona, avvolge e quando è calmo e quando si scatena nelle tempeste. Nuota, tesoro, nell'acqua che ti fa leggera leggera. Il mare culla ma anche travolge. Quanti verbi per una parola sola! Il mare scorre, la senti la corrente, dietro la schiena se stai a galla sul filo dell'acqua guardando il cielo, a volte ti trascina e a volte ti fa solletico. Ma soprattutto la notte, quando d'estate è caldo e lucente e immobile e sembra silenzioso, se sei abbastanza vicina il silenzio si riempe di un vruuun vruun come un vento ritmato».            
  La staffetta delle generazioni e delle narrazioni che si tramandano, eternando il tempo, è visibile nell'immagine accogliente ed eterna del mare, grazie alla voce e al doppio sguardo di Laura. Nella voce del mare si fondono e riecheggiano tutte le voci, familiari e non, che hanno abitato in lei, dotata di un Orecchio assoluto, non soltanto per la musica. Nella voce del mare Angelica potrà udirle e potrà udire la voce del padre che da bambino "ha pattiat' cu mmare”.




Giovanna Grimaldi IL MARE CHE NON C’È Ghenomena, Formia 2016.

Carmine Tedeschi

È banale, ma è bene ricordarlo ogni tanto: ci sono molti modi di raccontare una stessa storia, ma c’è un solo modo di ascoltarla davvero, ed è sintonizzarsi sulla lunghezza d’onda di chi narra, non solo accettando quel modo di raccontare, ma facendolo proprio. Entrando mani e piedi nel racconto. Se questo non avviene, è meglio chiudere e passare ad altro. In questa snella storia di donne le voci narranti sono più d’una, perciò la prospettiva cambia spesso. Ma di poco, perché la fabula non è altro che la ricostruzione di una storia di famiglia intorno alla quale tutte le voci, anche quelle inizialmente marginali divergenti, finiscono per armonizzarsi. Dominante è la voce di una nonna che in un certo momento della propria esistenza coronata da successi musicali è stata allontanata bruscamente dalla vita della nipotina, figlia di suo figlio, per inspiegabile volere della nuora, madre della bambina. Allora che fa? Accende un sanguinoso conflitto fatto di ripicche e ostracismi? Neanche per sogno, sa bene cosa è meglio per la bambina. Continua a fare la nonna per via di scrittura e, come fanno tutte le nonne, come farebbe ella stessa se potesse parlare direttamente alla bimba, le racconta la storia di famiglia attraverso decine di lettere che però non arrivano subito a destinazione: nonni e nonne, bisnonni e bisnonne, bisbisnonni e bisbisnonne. Tanti personaggi diversi fra loro, ognuno col suo carattere e i suoi tic, tali da comporre quasi una saga famigliare. Naturalmente, il racconto complessivo non è fin dall’inizio un elenco di figure bizzarre; ha una sua logica progressione che si adegua alla crescita della bambina, divenuta poi adolescente e poi ancora maggiorenne. Dapprima campeggiano figure fantastiche e fiabesche, anzi le fiabe sono addirittura reinventate dal senso critico della nonna scrivente, per aggiornarle ai tempi correnti ma soprattutto a un’educazione più libera, a un pensiero più accorto. Poi è la volta delle figure mitiche classiche (Dioniso, Teseo, ecc.), presentate con leggerezza. Subentra infine l’esame del presente, sotto diverse e pregnanti voci del nostro immaginario (come «mare», «incontro», «perdono»). Ogni lettera è quindi un racconto, un insieme di riflessioni, di amorevoli precetti. È, senza parere, una vera e propria scuola di vita, in cui senza forzature trova il suo spazio e la sua logica collocazione la ricostruzione delle radici: la storia di famiglia, appunto. La ricezione delle lettere avviene tutta in una volta. La nipote, ormai giovane donna, le riceve insieme all’eredità dalle mani di un’amica d’infanzia della nonna, a cui ella prima di morire ne ha spedito le copie con la preghiera di farle pervenire a chi di dovere, avendo sospettato l’intercettazione della nuora. Un accorto escamotage, che dalla fabula primaria passa a dare forma al testo, in quanto il lettore percepisce la storia dentro un’altra storia: quella di una amicizia fra due donne, che dall’infanzia arriva fino alla vecchiaia. Un’amicizia tale da consentire la consegna di un compito così delicato che solo gli intimi possono chiedere o soddisfare. Se c’è una scrittura che si possa definire ‘al femminile’, non c’è dubbio che questa ne abbia tutti i caratteri.




Francesco D'Alessandro

…Devo dire che all'inizio sono rimasto un po' spiazzato - chissà se solo io -, ma la cosa è durata poco. Via via che m'inoltravo nella lettura sono stato conquistato dal "gioco a nascondere" (e a svelare, in fin dei conti) della macchina romanzesca. Non c'è certo banalità o approssimazione nel piccolo ma potente meccanismo narrativo che Giovanna ha montato; c'è anzi sapienza e consapevolezza estrema nel giungere allo scopo, c'è freschezza di lingua e di storia. Il racconto è così semplice, a prima lettura, o ad approccio di lettura, è meglio dire; è così semplice, dicevo, che si resta un attimo dubbiosi sull'operazione, ma via via che si va avanti, lettera dopo lettera si resta convinti e si aderisce alla storia facendosi coinvolgere, così come la giovane protagonista viene coinvolta e risucchiata nella ricerca delle radici che la nonna architetta per lei.  Insomma, non voglio dilungarmi oltre, per non ripetermi né essere io banale a quel punto. Aggiungo solo che ho letto con grande piacere, apprezzando la scorrevolezza della lingua e il sapore di quella che sembra una fiaba e che invece è una storia sana e adulta di ricerca delle radici, quando queste per qualche oscuro motivo ci sono state strappate o le abbiamo dimenticate. Ecco, vedi? sto diventando banale, per troppo voler dire, quando non ce n'è bisogno...





L’educazione sentimentale di Giovanna Grimaldi

Domenico Vuoto

Dopo aver letto Il mare che c’è di Giovanna Grimaldi, edito da Ghenomena, avevo deciso che la definizione di “romanzo di pedagogia sentimentale” fosse la più appropriata al libro. In seguito ho avuto qualche ripensamento. Perché? Ma intanto perché il lemma ‘pedagogia’ mi è sembrato un po’ restrittivo rispetto alla narrazione varia e sentimentalmente articolata del lungo racconto e poi – soprattutto − perché in qualche modo distante, per spirito prescrittivo e severità cipigliosa, dai toni dell’opera. Credo invece che la parola “educazione”, educazione sentimentale, titolo di flaubertiana memoria, si adatti meglio a definire la grazia ariosa, lieve e, perché no?, suasiva e penetrante che anima le belle pagine del romanzo di Giovanna Grimaldi. Grazia, ariosità o leggerezza che si mescolano a momenti di ironia affettuosa, e a tratti pungente − e di non meno pungente autoironia. Il tutto, poi, velato da un’intima malinconia che scaturisce da una perdita e da un lutto, da un tempo consegnato alla memoria e alle sue defaillance e infine da una realtà temporale, la presente, di impervia decifrazione e densa di eventi che inducono quantomeno allo smarrimento. Il romanzo che si potrebbe definire per comodità epistolare, è nei fatti molto di più e più composito. Ruota attorno a due figure femminili, Laura e Sara, diverse fisicamente e caratterialmente tra loro e tuttavia complementari, unite da un forte sodalizio amicale, da interessi e gusti condivisi negli anni. La prima, Laura Comperti, è una pianista di successo che, in punto di morte, affida all’amica un pacco di brevi lettere da lei destinate alla nipotina, un sapido amorevole lascito morale costituito da fiabe e favole; Sara è l’avvocata che se ne fa depositaria e intanto declina il sentimento dell’amicizia scandendone esperienze ed emozioni giovanili ambientate a Napoli, città di cui Giovanna Grimaldi rende con poche esatte pennellate − disseminate sapientemente nel racconto − la geografia colma di fascino e, al tempo stesso, di problemi e ferite di non facile medicazione. Parte non secondaria acquista nel flusso narrativo de Il mare che c’è la genealogia familiare di Laura e della nipotina, disegnata da Sara: una divertente tassonomia di ascendenze e caratteri che si amalgama ai toni delle fiabe e delle storie acquistando, per contatto o contagio, toni anch’essi fiabeschi. La varietà dei registri narrativi, l’ariosità e grazia musicale del dettato costituiscono, come ho già cercato di dire, il cuore e la necessità del libro. Bisogna aggiungere che il romanzo è aperto alla speranza. Non una speranza facile o facilmente consolatoria, ma un sentimento che scaturisce da esperienze e “prove” esistenziali. Del resto, già il titolo dell’opera, nella sua felice perentorietà, vale quanto una riaffermazione di speranza, se solo si considera il mare, oltre che luogo reale, grande metafora di vita.






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