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Su “Patmos” di Rodolfo Di Biasio

Paolo Briganti

Amiamo i poeti che parchi, appartati distillano con cautela i propri versi (non esiste del resto una poesia “alla spina”): osservatene le pause fra un comporre e l’altro. Può essere già un indizio; quantomeno di serietà. A loro sentiamo di dovere più grata attenzione. Rodolfo Di Biasio (nato a Ventosa, Latina, nel 1937, vive a Formia) appartiene a quest’amabile specie. Di lui leggemmo nel 1986 – nove anni fa, dunque – I ritorni, un libro di evidente tendenza poematica, che narrava in versi una storia imperniata sulla condizione dell’uomo nella solitudine metropolitana. Dobbiamo risalire altri nove anni (1977) per la precedente prova poetica: Le sorti tentate. Oggi esce, secondo commendevole pausa ormai canonica (nono prematur in anno...), Patmos – fine plaquette affidata al viatico di Leonardo Mancino – con cui Di Biasio raggiunge, in trenta/trentacinque anni di attività, quota cinque titoli poetici. Sotto la sigla complessiva di Patmos – ricavata dal primo testo, Frammenti per il poemetto di Patmos – si leggono altri sei poemetti: Poemetto del vento e del silenzio, ... del desiderato risveglio, ... del sonno, ... del vetro, … del giovane anno, … della regione inarrivabile. E la lettura tende a tracimare dall’uno all’altro, in una sequenza che diviene percorso. È infatti una caratteristica della poesia di Di Biasio la continuità del discorso, secondo una tendenza narrativa, o più spesso meditativa, anche qui confermata. Anche se, invero, questa sorta di discorsività in Patmos – diversamente dalle due precedenti prove – è come scavata nel primum costituito dall’interiorità del discorso lirico. L’oggetto narrabile non è diverso dal narratore: ne scaturiscono perciò versi in sorprendente equilibrio lirico-narrativo. Perché, dunque, “Patmos”? È intanto un segnale, fra storico e geografico, in cui si addensano, fin dall’attacco, echi culturali ineludibili: “È un rombo / è un rombo solo / stasera, qui a Patmos, / questo mare greco / Nel suo rombo le traversie / che da Itaca distrassero Ulisse”. È il luogo dalla cui riva il pellegrino – il viandante della vita, l’uomo – contempla amaramente, angosciosamente, l’improvvisa incapacità di decifrare il senso delle cose (Toccarle, le cose, / nemmeno basta più), il senso, in primis, della natura, del mare ( “vuole altri ascolti / la voce di questo mare”). La parola, la parola stessa dell’uomo sembra aver perso la sua intrinseca capacità (poetica) di restituire vita nella nominazione poetica: “Essa descrive ormai / e non trafigge / Non è più / rombo che si fa luce”. La volitività e la spinta “progressiva” delle due precedenti prove di Rodolfo Di Biasio segna qui, in modo talora esplicitamente metadiscorsivo, un brusco arretramento: traspare un’incrinatura. Persino il ritmo dei versi, cui il poeta si affida da sempre con grande sensibilità ed efficacia, si frange e si raccorcia sovente, tradendo l’interno affanno. Se, per il poeta, sia il mondo non più ricreabile dalla parola, o la parola divenuta impari al mandato, ci pare appunto il nodo della questione. Certo è – questo di Di Biasio – l’inverno della poesia: “Ancora inverno: / il puntuale inverno / e il suo grido di muschio”. Sì: è un crudo, duro, immedicabile freddo. Sarà bene affidarsi all’epigrafe (da Shelley) per una luce di speranza: If Winter comes, can Spring be far behin?”


Alvaro Valentini

La prima sezione del volume, Patmos, che dà il nome a tutta la raccolta, pone di fronte l’isola di Ulisse e quella dell’Evangelista. Ma mentre Itaca, ormai nella mitologia poetica, è soprattutto il “luogo” del ritorno, Patmos è l’emarginazione, la solitudine del Profeta alla quale non tutto il nostro essere riesce ad approdare non per segni contrastanti: e si configura come una struggente attesa dell’uomo interiore. Risuona, inevitabilmente, nella nostra memoria la luminosa ed oscura apertura di San Giovanni: In principio era il Verbo... E per Di Biasio il verbo, lungo i sette poemetti della raccolta, si frastaglia nei “graffiti del vivere” che cercano una loro unità. Come si cerca un fiore “esso pure / il dolore, / che il vento mi rifrange / e scompone poi / in moltitudine di petali”. Il poeta stesso appare affascinato da questa molteplicità di vita che sfugge dipanandosi: è un continuum che si indovina proprio perché si valuta a frammenti in apparente contraddizione. Ma “È nel giovane anno che mi chiedo / se ancora è sortilegio / la prima erba sul greto / se è miracolo il giorno / nella sua rosa di luce”. La vita, insomma, è, nel suo insieme, più sicura delle sue particolari vicende. È stato detto, per altre raccolte di Di Biasio (Poesie dalla terra, ad esempio) che il loro spettro linguistico era lo spettro della poesia che, per un attimo, si propone come rifugio e consolazione, fatto privato; poi si articola decisamente ai due poli, in un dialogo tra l’epopea e la cronaca. In questa ininterrotta volontà di riscatto c’è tutto Di Biasio. L’eroe Mosè o il Faraone di Poesie dalla terra o Ulisse e Giovanni di Patmos, sanno stare, egualmente, accanto all’uomo comune “i luoghi diversi / e allora è un vedere / e insieme un non vedere / si intristisce l’occhio / che coglie il bordo delle cose / e non le trapassa”. Unico scampo, dunque, la visione. E Patmos suggerisce opportunamente che “toccarle, le cose / nemmeno basta più”. Già in Niente è mutato, Di Biasio era giunto ad una figura di fanciulla che s’accaniva “a ritrovare / la luna inesistente”: preludio lontano di una maturazione che giunge ad un fulmineo paesaggio spirituale di Patmos: “abbiamo tracciato dentro i luoghi dell’assenza”. Ma il Verbum può placare questa assenza: “La parola nostra ha sì un suo suono, / malioso anche talvolta, / ma persuasivo no / non fa consuonare essa / ciò che è esterno a noi / e ciò che è eterno in noi”. Ma non è del tutto vero che, nel poeta, ogni cosa si faccia “spenta marea”. Ne rompono la grigia superficie gli “inascoltati precipizi” che si aprono nell’impaccio del sangue. Questa poesia, scarna, tiratissima, che sempre più spesso balena di lampi extratemporali, finisce per rivelare un suo estremo segreto nel dipanarsi del tempo. Stagioni che si susseguono, attese di tempi nuovi, speranze di un futuro che non può mancare... Ed ecco il coraggio di Di Biasio riemerge “in questo spoglio silenzio / Batte qui il sangue i suoi labili segni / e s’addensa l’anima / procede sempre più sola / tenta essa / la regione inarrivabile del puro”. Implacabile grava su tutto la dispersione. E quale filo, oltre allo scandirsi del tempo, ci può salvare da essa? Non certo il tutto che si slabbra “e ad un tempo si fa immobile / una fissità delle cose e nelle cose / icone che non trasmigrano”. Ma ormai è evidente che le “icone che non trasmigrano”, portano per Di Biasio, come per San Giovanni, una particolare visione. Certo, la salvezza può anche essere considerata “inarrivabile”, tuttavia è un punto da fissare. È sorprendente come i rimpianti di Di Biasio, che possono sembrare sull’orlo della disperazione, si mutino affabilmente in fantasmi consolatori. Come quello di Palinuro, tra gli altri: “È – era – il nostro un bianco sonno, / il tuo sonno, / antico Palinuro, / per un cuore che serra / progetti nostalgie” che non si possono del tutto affondare nella “disperazione di un mare incompiuto”. Spoglia di ogni termine sonoro, di ogni indulgenza alle vibrazioni esasperate, di ogni episodio che si possa ricondurre all’aneddoto, la poesia di Di Biasio, conquistati i “graffiti del vivere”, ha consumato la pur seducente corporeità delle prime raccolte, senza rinunciare al loro retroterra intenso. Le sue antiche discese agli inferi presupponevano un atto coerente di evasione e di risalita; la sazietà della “letteratura” annunciava una ascesa di laica religione. Nel Verbum di Giovanni l’attesa è fiorita: il fondo cristiano dell’Evangelista, pur ridotto ad hominem, si colora di una attenzione vigile del sogno, “forse oltre il sogno”. Riportato a più umane proporzioni, il “volo” di Giovanni non perde la seduzione che lo pervade. E se anche non ha il sigillo di un intervento divino, ma la modestia e la coscienza del sogno umano, “agisce” con rara efficacia. Perché anche il sogno – è stato detto – “è un’infinita ombra del vero”.


Marcello Carlino

Quella di Patmos è una poesia di riflessione, dove il pensare si svolge nei modi del poetare. E nelle forme del poema. Il poema, intanto: la scelta è tutt’affatto necessaria e consòna con la dialettica della totalità e del frammento, propria del pensare. Brevi poemetti, scaglie di poema hanno qui, tra di loro, un filo di collegamento visibilissimo, filato e fatto consistente dal ritorno di luoghi e di figure, di movimenti e di immagini; e appaiono i capitoli di un discorso che riprende ininterrottamente, di un intrattenimento che non ha soluzioni di continuità e che si raccoglie nel tutto di Patmos. Ma il titolo (e il suo segnale di compiutezza poematica, e il suo richiamo all’ unitarietà del macrotesto nel cui alveo confluiscono i microtesti, come le acque dei rivi in un unico fiume) incontra subito, in apertura, un alter ego, che in parte gli è simile, in parte è diverso e finanche antagonista: Frammenti per il poemetto di Patmos: quasi che, mentre è tale, e tale è detto dalla concisa definizione del toponimo che gli dà il nome, il poema restasse ancora da fare, chiuso e tuttavia aperto: quasi che fosse una totalità di frammenti, che alla totalità tendono ma totalità non sono se non provvisoria, perfettibile, in fieri. Ed è del pensare, appunto, l’inesauribilità del suo processo, l’infinito intrattenimento del raddensarsi e del divagare, del contrarsi e del distendersi: l’essere per riaprirsi in ogni sua fase e dopo ogni apparente conclusione: il tenere, insomma, di una organica frammentarietà che rinvia sine die, mentre la scrive, la parola fine. È del pensare questo particolare respiro poematico, come è della riflessione il basso continuo, che è la cifra stilistica dominante di Patmos. Rodolfo Di Biasio aziona il pedale della sordina, tenendolo dovunque premuto; e le accensioni liriche, che trovano il loro fuoco nell’eco miracolosa del paesaggio e nel solidificarsi repentino di cristalli di memoria, sono sempre trattenute ben al di qua del fortissimo; né dissona da un adagio, che sa di elegia, il mito che emerge dal profondo ed è legato alla figura del mare, agli archetipi del viaggio. Ecco, se in Patmos si conserva una lontana suggestione dell’Odissea, come libro dell’origine di cui ogni libro riscrive il modello (tracce analoghe s’avvistavano già nell’opera precedente di Di Biasio, I ritorni), pure la certezza del mito, quello che è dato in consegna dalla tradizione e quello che si istituisce nel farsi mitopoietico della scrittura, appare revocata, lavorata ai fianchi ed erosa dal basso continuo della voce poetante. Che è altra voce, allora, da quella che, sul paradigma del mito, oggi coniuga con pronuncia scandita il verbo della poesia e altra da quella che scolpisce, al centro o ai margini del testo, fuori e dentro le trame del quotidiano, le epifanie di cui l’io lirico è testimone e attore, oracolare maieuta. L’io che dice in Patmos, e dice a bassa voce, e dice come accogliendo nella sua voce il silenzio, dice e ritorna sul suo dire: dice come due volte e sul suo dire è sempre sospeso un punto di domanda. Il linguaggio è interrogativo anche quando gli eventi e i moti dell’animo, gli oggetti e il soggetto che li rinviene e li finge, e li rielabora assimilandoli allo spazio del suo viaggio mentale, sembrino avere una funzione deittica, estensiva, esemplare: il linguaggio di Patmos ha una sua interiorità metalinguistica, alla quale si devono l’asciuttezza e la decantazione fino all’essenziale delle parole e dei costrutti, lavorati con una paziente, riflessiva arte del levare. Per restare al mare, il suo è un moto di risacca: senza impennate, tenui come riccioli le creste dell’onda, avanza e ritorna su se stessa, con ciò che ha strappato alla terra, per avanzare di nuovo: così il linguaggio, all’infinito, in un infinito intrattenimento. Le giunzioni per polisindeto, la parola che si ripete, estratta o evocata dalla frase precedente, e che si fa centro di un nuovo composto, ma aperto e pronto a rientrare nel mutevole flusso ondulatorio della scrittura, sono alcune figure maggiori di questo linguaggio di calma risacca, che traduce il lavorio della riflessione. Il passare insiste su tre luoghi semantici a sé, che però, nel moto di risacca, intessono una fitta trama di relazioni e si danno voce l’un l’altro. Il primo tiene del presente in cui siamo, che è di dissipazione, che è il tempo di un io diviso e di una deprivante presenza-assenza: presenza rumorosa e simultanea dei tanti frammenti in cui si scinde il nostro essere nella vita, dominata dal principio di realtà, per il che noi siamo là, nell’esperienza particolare che viviamo, e contemporaneamente siamo altrove, dispersi a seguire le tante strade che sono d’innanzi, obbligate, al nostro caotico cammino di forzati; assenza del necessario raccoglimento, della pienezza di un vero rapporto di noi con noi stessi, che ci guidi a cercare il senso integrale del nostro essere al mondo, con noi stessi e con l’altro da noi, assenza che ci fa soli, mentre ci ruba la solitudine richiesta per l’ascolto e per il contatto, in un raccolto silenzio, con la totalità dell’essere (che in Patmos ha il suono e la luce, il volto eterno e cangiante del mare). Il secondo luogo semantico si estende oltre il presente e risale dall’oggi fino all’origine, chiamando un tempo cosmico, metastorico. La dissipazione e la diaspora sono forse gli esiti, oggi conclamati e più tangibili, di una perdita che da sempre si è prodotta: di un’espulsione dell’uomo dalla totalità dell’essere, di una alienazione che avviene ad ogni nascita, che è avvenuta in origine, alla nascita del primo uomo. Naufrago, postumo e povero superstite già dall’infanzia dell’umanità, l’uomo sconta una mancanza ad essere, una morte di sé come essere nel tutto, e ne riafferma più costrittive le leggi, nel qui ed ora della storia. È per questo che Patmos convoca sulla pagina il mito, ma come perdita, come caduta (vi è dominante il mito dell’esilio), come ciò che non può dare la certezza di un ancoraggio: e Palinuro, nel viaggio in interiore bomine che il libro figura di riflesso dalla figura del mare, è una presenza-chiave. Ed è per questo che la nostalgia non si volge al passato (Ulisse non ha più la sua Itaca), ad una stagione circoscritta prima della scissura e della ferita, ma è indeterminata, è senza oggetto, è una nuance e una sfumatura di tono, dacché non è scritta su nessuna mappa, e forse è inesistente, e di certo è “inarrivabile” la ‘‘regione” di una consonanza piena degli esseri nel mare dell’essere, mentre non bastano al pensiero le scorciatoie verso regni metafisici, al di qua e al di là dell’esistenza che si vive, dove l’essere è, come tutto. Senza oggetto, mai puntuale, nuance e sfumatura di tono, è anche in Patmos la memoria. Il terzo luogo coincide con la deprivazione, che allora è storica, epocale, ma è pure ab initio, consustanziale, del linguaggio: il linguaggio, quello in specie della poesia per tradizione delegata a supplire una edenica pregnanza, che “coglie il bordo” delle cose e non le “trapassa”, “dice” e non “persuade”, “descrive” e non “trafigge”. Inascoltabile nella sua concertazione armonica e nella sua sintesi degli opposti il rombo del mare, il linguaggio, come l’uomo, è naufrago, postumo: “non fa consuonare / ciò che è esterno a noi / e ciò che è eterno in noi”, non è più “rombo che si fa luce”: non realizza sinestesie che traducano e prolunghino l’infinita risonanza del senso, come unità del molteplice (Ulisse non ha più la sua Itaca, Orfeo ha perduto il miracoloso potere della sua musica). Tre storie del decadere e tre vicende d’esilio, che nello sciabordio della scrittura pensante di Rodolfo Di Biasio si integrano e scambiano i loro distinti elementi di significato e le loro valenze, coinvolgendo, in un gioco di intrecci e di rimandi, la situazione dell’io che dice e quella dell’umanità di cui pure si dice, il particolare e il generale, il concreto o il puntuale e l’astratto o l’indeterminato: la totalità frammentaria di Patmos scrive questa complessa triangolazione e le occasioni di riflessione che essa dirama, con il linguaggio a bassa voce dell’(auto)analisi e dell’interrogazione. Scrive e rappresenta, e non s’arrende. Già lo scriverla, vietandosi fughe e facili uscite di sicurezza, è di per sé una non resa: è fedeltà ad un compito di responsabile presenza della poesia d’innanzi a domande capitali che tutti ci riguardano e che non hanno poco conto per quel che siamo e che potremmo essere: hanno un respiro cosmico e insieme storico le domande di Patmos. Ma che Patmos non si arrenda è, soprattutto, suggerito da un leit-motiv, composto da due parole battute e ribattute: l’alba e il risveglio. Scansata ogni illusione metafisica, irrintracciabile in un momento del passato la regione inarrivabile della riconciliazione, la nostalgia, se non è resa, e qui non è resa, non può che volgersi al futuro, non può che essere nostalgia del futuro. Da ciò il refrain del risveglio e dell’alba; da ciò il fissare e il riportare insistentemente l’ora del testo sul tempo dell’inizio, di un giorno che comincia e che, non è dato sapere quando, potrebbe essere nuovo, svegliandoci in un tempo di pienezza e di presenza vera. C’è un’intonazione ottativa in Patmos, tenace e mai doma; e non è mera, inerte attesa, è desiderio, è speranza alla quale la poesia presta le sue forze poetando di pensiero, non smettendo di interrogarsi, dentro il suo fluire avvolgente, dentro il suo sciabordìo, e proprio con il suo linguaggio ‘incompleto’ che non trafigge e non persuade, un linguaggio a bassa voce privo di certezze. Patmos, del resto, lega il suo nome all’Apocalisse, rivelazione di una fine che non esclude un possibile, nuovo inizio.

In “Arenaria”, n. 53, 1996.



Frammenti per un poema: Patmos

Raffaele Pellecchia

Ed ecco, poi (1995), Patmos; cioè, innanzitutto, un luogo geografico ben delimitato: un’isoletta del mar Egeo sottratta, chissà ancora per quanto, all’insulto della civilizzazione e all’aggressione del consumismo vacanziero. Io non conosco quell’isola, se non attraverso gli echi giovannei, i rimandi hölderliniani e lo stupore di chi l’ha visitata. So di una natura primigenia, incontaminata, dove i colori, i profumi, le presenze animate e inanimate fermano un tempo senza tempo. Ma Patmos è anche un luogo della memoria, dove l’evento si slarga nella dimensione del mito e reclama il confronto con l’homo historicus. Per questo Patmos diventa anche, e per fortuna, il luogo della riflessione, il paesaggio dell’anima; e, soprattutto, la tappa di un arduo e doloroso viaggio conoscitivo alla ricerca dell’uomo perduto. Un viaggio gnoseologico, quello di Di Biasio, che coincide col percorso formale della sua poesia, dove il continuum della scansione meditativa si frange in una costante proliferazione di dissonanze concettuali che animano l’organicità del discorso e alimentano la stessa struttura linguistica e retorica della frase. È appena il caso di sottolineare, poi, come in tale ambivalente connotazione risieda per intero il valore storico e, direi, l’esemplarità novecentesca della poesia di Rodolfo Di Biasio, preservandola dal rischio incombente della caduta elegiaca e dal pericolo di un’anacronistica e inopportuna armonia tonale, da cui il poeta si tiene consapevolmente lontano affidando preliminarmente al titolo del primo dei sette testi che danno corpo alla silloge il compito di offrirsi come emblema di una realtà composita e contraddittoria: Frammenti per il poemetto di Patmos; dove il semantema che fa da soggetto collude, ma anche collide con la sua destinazione, a indicare l’impossibilità di una costruzione poematica fondata sulla fiducia del dire, sul piacere del riferire e sulla certezza del definire. D’altra parte quella di Di Biasio è una poesia inquisitiva e altamente dubitativa, che conosce la tormentosa tensione euristica e l’impietosa ricognizione del negativo, ma che ignora il gratificante approdo della verità. Egli conosce e sperimenta l’heideggeriana deiezione (Verfallen) dell’esserci (Da-sein), l’inadeguatezza e l’inautenticità dell’umana esistenza che si origina dalla condizione di esilio e di oblio del senso delle cose, o meglio dalla perdita di apertura verso le cose-a-nostra-disposizione (Zuhandenheit), e dell’ affievolimento della capacità di comprenderle e interpretarle come parti di una rete dotata di significato. L’uomo come esistenza che è nel mondo (Existenz in-der-Welt-sein) deve prendersi cura (Sorge) di sé, degli altri e delle cose, senza di cui la sua coscienza resta isolata e irrelata dal resto del mondo. Più precisamente, resta senza mondo; e perciò solo, inautentico, privo di senso, cosa tra le cose. Quando Di Biasio dice, nella consueta forma dubitativa, di voler perseguire un tentativo, l’unico che forse possa riportarlo a cogliere “l’insieme delle cose / così come esse si dispongono / in interiore homine / e là esse si fanno / senso”, accoglie di fatto la proposizione heideggeriana e fa della sua poesia uno strumento di ricostituzione dell’essere (dell’esserci) e della sua possibilità di vita autentica. La reintegrazione del Dasein nell’Essere parte, com’è naturale, dalla coscienza di una profonda e radicale dissociazione tra l’io e la realtà esterna, tra passato e presente, e pervade e scompagina altresì la compattezza e la integralità di una soggettività ormai disunita e frammentata, che ha perso il suo centro ed ogni altro punto di riferimento (ideologie, fedi, valori), oscillando incerto sul ciglio sdrucciolevole e nebuloso di una vertiginosa voragine (“mi sento frammentato / dai troppi bisogni, / schegge anche non mie / di fatti che mi legano / e si fanno sordina / di quelle poche voci e luci / necessarie / Ora più necessarie”). Davvero poche le voci e le luci in grado di orientarci verso la reintegrazione dell’io, e più che mai necessarie oggi, ma non per questo negate; voci e luci che il poeta individua negli elementi archetipici della natura: innanzitutto il mare, e poi il vento, l’aria, la gran madre terra: simboli vitali e dinamici del perenne e incessante itinerario metamorfico dell’esistenza. Ma anche voci e luci che richiedono una penetrante capacità percettiva, una sottile virtù d’auscultazione, una magica condizione di silenzio, perdute o smarrite nella fragorosa sarabanda dei rumori metropolitani e nella cieca, abbagliante e omologante offensiva dei congegni mass-mediali: “Avverto di aver disimparato la sua voce: / vuole altri ascolti / la voce di questo mare / vuole i silenzi dell’anima / anche quando come stasera / si fa rombo sulla scogliera, / vuole solitudini / che più non abbiamo / e che forse toccherà ritrovare / al marinaio delle stelle”. L’hic et nunc allarga così le sue coordinate, e Patmos, luogo geografico, mentre palesa l’inadeguatezza dell’approccio alle cose e rivela l’insufficienza dei sensi quali primari veicoli di conoscenza, diventa nel contempo il luogo della tentata risalita verso la riconquista della regione della salvezza. Che poi Di Biasio insista più sui segni del negativo che non sui colori della speranza, ciò nulla toglie al valore e alla consistenza del suo laico tentativo salvifico. Mi rendo conto, sostenendo questa interpretazione, di proporre una chiave di lettura che pare risultare in contrasto palese con la prevalente semantica delusiva dei sette poemetti, ma io credo che il senso della poesia e, in particolare, di una poesia come questa, richieda una valutazione che, superando il mero dato contenutistico e sia pure quello più scopertamente concettuale, si pieghi a cogliere il significato di un sottosenso più vero, rintracciabile nelle movenze e nell’interna struttura del discorso poetico e, soprattutto, nell’antifrastico e minoritario messaggio che coniuga la fine dell’utopia con la inconsistenza del valore della parola poetica. Dicevo dell’ampiezza dei segni del negativo che, sin dall’inizio, si manifestano come spia di un disorientamento e di un disagio che la piccola sponda del “greco mare” amplifica a dismisura, provocando il senso di una scissione straniante, di una irriducibile ambivalenza tra il qui ed ora e 1’altrove. L’uso del deittico, pur così frequente, non solo non rassicura, ma produce una dolorosa presa di coscienza: “Toccarle, le cose, / nemmeno basta più: / o almeno a me non basta / Al modo dello sguardo / anche il tatto”. L’occhio vede e non vede, “s’intristisce”, “coglie il bordo delle cose / e non le trapassa”. La stessa azione dei verbi è spesso contraddetta dalla negazione che li precede: “molto di me / non è ancora approdato”, “non le trapassa” (le cose), le icone “non trasmigrano”, la parola “non trafigge”, “più non parliamo”, “l’orizzonte non si apre”; e, quand’anche ne sia priva, spesso comunica il senso di una impossibilità, di una dissoluzione: “si sperde”, “si slabbra”, “s’infrange”, “si raggrinza”, “si fa spenta”, “trema”, “ci inchioda”, “ci svuota”, ecc. Ma può bastare questa ricognizione delle forme del negativo (che ovviamente potrebbe oltremodo dilatarsi sino a formare un corposo, vario ed eloquente repertorio), per definire l’ideologia della poesia di Di Biasio. In questa direzione, peraltro, sembrerebbe orientarci anche la più significativa ed emblematica delle rilevazioni, quella che da sempre connota, dà forma e sostanza all’atto poetico, cioè la parola. Essa, più di ogni altro ente, sperimenta la sua inadeguatezza di fronte alle cose e al pensiero: Orfeo è morto per sempre, e con lui il potere magico e alchemico della parola. La conseguente fine della figura del poeta vate ha segnato la crisi del suo ruolo e della sua funzione storica, ma ha determinato anche l’irrimediabile affievolimento dei tradizionali istituti formali e linguistici. Non solo la parola non è più dannunzianamente divina, ma non è più neanche montalianamente in grado di definire la realtà, sia pure nelle forme della negazione. Il tempo, il nostro tempo, ne ha usurato l’uso e ne ha indebolito la capacità rappresentativa, condannandola ad una funzione meramente esornativa e descrittiva: “La parola nostra ha sì un suo suono, / malioso anche talvolta, / ma persuasivo no / non fa consuonare essa / ciò che è esterno a noi / e ciò che è eterno in noi / Essa descrive ormai / e non trafigge / Non è più / rombo che si fa luce”. La heideggeriana dissociazione tra empirica fattuale esistenza e essere, che rende inautentica la vita dell’individuo, ha insidiato anche la parola, svuotando il suo portato ontologico e relegandola a tramite inaffidabile, a suono “malioso” ma non “persuasivo”. La separatezza dell’io dalla molteplicità degli enti (“ci facciamo remoti bozzoli / chiuse conchiglie”), e la sua stessa interna dimidiazione, si è riflessa nella estraneazione e nella diaspora del linguaggio dalla realtà, determinando la più dolorosa delle scissure. Ma, allora, davvero la poesia di Di Biasio si definisce nella registrazione di una irreparabile perdita? nella declinazione dei modi di una sconfitta epocale e di un deragliamento ontologico-esistenziale? Io non sono di questa opinione, e credo, invece, che il senso latente e tuttavia più vero e profondo del discorso poetico di Patmos sia un altro. Perché, innanzitutto, quello di Patmos è propriamente un discorso, nel senso retorico del termine, caratterizzato da una dispositio che tradisce un andamento prevalentemente colloquiale e ragionativo, che procede sì perplesso ed esitante, lungo le impervie e nebulose rotte della conoscenza, ma di fatto procede, tenace e ostinato, con poche speranze, ma non con nessuna speranza di approdo. Poesia riflessiva, dunque, quella di Rodolfo Di Biasio, che piega alla sua intrinseca natura anche i non rari bagliori di lirismo che si generano da qualche occasionale recupero memoriale, ovvero dalla momentanea seduzione di uno scorcio paesaggistico. Da questo punto di vista la sua poesia è figlia fedele dell’estetica leopardiana: ai moderni è concesso solo una poesia filosofica, che io definirei altrimenti una poesia della presenza e dell’autocoscienza, che interroga e sollecita domande, che non illude né consola, e tuttavia resiste alle lusinghe del nichilismo di matrice nicciana così come alla abdicazione del ‘pensiero debole’, entrambi racchiusi in una modesta e miope ontologia dell’attualità che impoverisce l’uomo, la sua storia passata e la sua proiezione futura. Di Biasio si ribella, pur senza pose prometeiche, alla diffusione della filosofia della rinuncia che sta progressivamente conquistando gli spazi della coscienza contemporanea, specie dei più giovani, e si dissocia anche da chi s’intristisce e si apparta a declinare i modi di una sterile lamentazione. La sua non è una protesta velleitaria e qualunquistica, giacché il primo critico interlocutore di una tale poesia ragionante è lui stesso; la sua storia personale diventa così una sorta di specimen di una più generale condizione, comune ed esemplare allo stesso tempo. Una storia che, come sappiamo, parte dal soggettivo riconoscimento di un disagio e coniuga impietosamente i tempi e i modi di perdite e di dissipazioni, di progressivi e dolorosi sradicamenti, di depauperamenti, di dispersioni. Storia personale in cui si ricapitola e si riflette il segreto ed eterno respiro del cosmo, che accoglie “la deriva delle galassie” e “il battito di una foglia”, entro una Weltanschauung che rinvia per diretta filiazione alla matrice lucreziana: Con i molti pensieri chinati qui, dal mare, la luce scioglie la sua splendidezza e i passi e l’aria la terra, la poca terra si disfa In un arco il grido della nascita la luce del mare e l’ora del crepuscolo quella che filamenta d’ombre infinite creature E appunto in quell’arco, che racchiude nascita e morte, sembra condensarsi il segreto ed eterno mistero della vita, che si perpetua e si replica nelle forme del mito extratemporale, così come nel breve ansito dell’esistenza individuale. La storia dell’esistente, ora come sempre, pare condannata ad una sorta di coazione a ripetere, sicché il tragitto di ogni ente, uomo o cosa, mare e terra, luce e tempo, ignora il percorso rettilineo, procedendo secondo un moto circolare e oscillatorio che dà l’illusione del mutamento mentre ribadisce la meccanica della stasi. Stasi e movimento, luce e ombra, contingenza e tempo metastorico, luogo geografico e spazio mentale, cielo e terra, vita e morte: sono questi i termini di una dialettica incessante che alimenta la tessitura di una scrittura poetica che ha espunto da sé ogni indulgenza consolatoria, sino a dare l’ impressione di voler perseguire una sintassi volutamente aspra e si direbbe impoetica, funzionale ad un esame di coscienza radicale ed ultimativo. Molto acutamente, a tal proposito, Marcello Carlino ha individuato la cifra stilistica dominante di Patmos in una sorta di “basso continuo” in cui opera la presenza di una “voce poetante” in costante posizione di vigilanza nei confronti di ogni tentativo di innalzamento tonale variamente in agguato. In effetti, “il basso continuo” scandisce il ritmo della “riflessione” e accompagna la tensione di una ricerca scabra e severa, che procede, con esitazione metodica, per frammentarie e scarne acquisizioni, lungo un itinerario conoscitivo insidiato dal latente e corrosivo tarlo del dubbio, testimoniato, sul piano grammaticale, dalla frequente ricorrenza del “forse”: “vuole solitudini / che più non abbiamo / e che forse toccherà ritrovare / al marinaio delle stelle”; “perdo la linea di congiunzione / la sola che possa forse / riportarmi a cogliere / l’insieme delle cose”; “Forse perché più non parliamo / o se crediamo di parlare”; “oltre il sogno / forse oltre il sonno”. Ma la perplessità del discorso, evidenziata peraltro dalla estrema varietà della misura del verso e del giro strofico, contrasta con la ostinazione del voler discorrere, fissando di volta in volta i termini di un acquisto concettuale che il poeta registra con cautela, come incerti pioli di una scala malcerta eppure necessaria alla salita. Ed ecco, allora, il ricorso ad una congiunzione che connota e tipizza più propriamente un testo ragionativo, come il “dunque” (“Al di qua dunque”; “È dunque il risveglio”), così rara in poesia; ecco l’uso degli incisi con funzione attenuativa o esplicativa, pure essi tipici dell’eloquio prosastico; ecco la frequenza della formula disgiuntiva (o ... o); ed ecco soprattutto, vera cifra retorica della scrittura poetica di Patmos, la ricorrente utilizzazione della figura sintattica e metrica della ripetizione, in tutte le sue varianti: dall’epanalessi alla geminatio, dall’anafora all’epifora. In genere i procedimenti retorici legati al meccanismo dell’adiectio vengono impiegati per caricare d’enfasi un’espressione o una frase; non è certamente questo il caso di Di Biasio il quale, invece, li opziona in una direzione affatto originale. Non so quanto vi sia di consapevole in questa operazione, potendosi trattare, come spesso accade nei fatti di scrittura, di lapsus inconsci rivelatori di un genotesto tutto da decrittare. La pronuncia iterata è spesso anche il sintomo di una balbuzie, cioè di un difetto e di un impedimento e, comunque, di una insufficienza psicolinguistica. Se così è, la poesia di Di Biasio traduce, come già rilevato, il disagio di chi avverte l’inadeguatezza della parola di fronte alle cose, sicché, come a rafforzare la sua valenza semantica, egli è portato a ripeterla secondo le più diverse modalità: è un dire e un ribadire per timore di vaghezza; è come un tornare sui suoi passi per verificare la labile traccia che sta lasciando sul percorso. In questo senso si giustifica anche l’uso del dimostrativo “questo”, che, come c’insegnano le vecchie Grammatiche, indica vicinanza a chi parla (“questo mare greco”; “Questi ciottoli marini”; “È questo mio / un gesto che rimane vuoto”; “quest’ultimo mare”; “in quest’ora lunare”), e sembra garantirgli una concretezza, una sicurezza altrimenti negata. E sia. Ma, dopotutto, la balbuzie non regredisce in afasia, e testimonia una tenace volontà di dire, iterandosi e replicandosi costantemente, come parola e come sintagma, quasi che, in tal modo, possa prendere consistenza l’approccio alla verità delle cose, come tramite per accedere a quella più profonda verità che habitat in interiore homine. Qui la campionatura potrebbe essere oltremodo ampia; basti, perciò, solo qualche esempio: sotto forma di geminatio: “ascolto e ascolto”; “e oltre oltre”; sotto forma di anadiplosi: “si fa più curvo l’occhio // l’occhio si curva”; sotto forma di epanalessi: “Questi ciottoli marini, / lampi li chiamano qui, questi ciottoli marini, dico”; sotto forma di ripresa, in modo che due versi distanziati: “Con i molti pensieri chinati” e “passeggiamo il luogo dei superstiti”, si riuniscono in un rapporto di contiguità (“Con i molti pensieri chinati / passeggiamo i luoghi dei superstiti”); nella forma della figura etimologica: “un albore solo d’alba”; nella forma dell’anafora: “È un rombo / un rombo solo”, e dell’ epifora: “È – era – il nostro un bianco sonno, / il tuo sonno”. E si potrebbe continuare in uno spoglio fecondo di altre intime associazioni, di rimandi fonici e semantici che possono nello stesso tempo alludere alla crisi della parola e al tentativo di salvarla dalla deriva alla quale pare condannata. Risultati omologhi si ricavano dall’analisi di altri settori d’ indagine, che rivelano una composita e complessa tessitura isotopica che sembra esibirsi, nella sua organica e dialettica strutturazione, come il più autentico significato della poesia dibiasiana, che, alla fin fine, dalle desolanti premesse di una condizione di fredda solitudine, esemplarmente simboleggiata dalla stagione invernale, ricava la determinazione a procedere, nonostante tutto: Batte qui il sangue i suoi labili segni e s’addentra l’anima procede sempre più sola tenta essa la regione inarrivabile del puro Dove l’informe respiro nostro di uomini sia esso stesso il bagliore dell’erba il suo sussulto Un congedo che, nell’ottativo dell’intonazione conclusiva, tradisce un’indomita e ineliminata fedeltà alla vita, ai suoi multiformi aspetti, alle segrete e palesi antitesi che l’alimentano, nonché al dovere dell’uomo di aderirvi con coraggio e consapevolezza.

*In “Gradiva”, Poesia della presenza… Su “Patmos” di Rodolfo Di Biasio, n. 17, 1999; e poi, con il titolo Frammenti per un poema: “Patmos”, in Con le parole/oltre le parole, cit.

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di Barbara Carle

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